venerdì 30 maggio 2025

Leadership postmanageriale e generativa nel Terzo Settore: dinamiche soggettive e pratiche collettive in un’epoca di trasformazione

 

Social Worker


Introduzione: crisi economica, politica e sfide dell’internet economy

Il contesto economico e politico attuale è caratterizzato da una complessità crescente e da trasformazioni profonde, dovute alla crisi della globalizzazione neoliberale, all’instabilità geopolitica e alla diffusione accelerata delle tecnologie digitali, che modificano radicalmente i modelli di produzione, lavoro e partecipazione sociale. L’economia digitale (internet economy) impone nuove modalità di governance e di organizzazione, che incidono anche sui processi di rappresentanza e sulle forme di leadership.

In tale scenario, il Terzo Settore emerge come spazio cruciale di innovazione sociale, capace di tessere relazioni tra mercato, istituzioni e comunità. La sfida principale riguarda la capacità di sviluppare modelli di leadership che superino i limiti dei tradizionali approcci manageriali, spesso gerarchici e verticali, per adottare forme più fluide, distribuite e generative.


Leadership postmanageriale e generativa: definizioni e riferimenti teorici

La leadership postmanageriale si distingue per un approccio meno autoritario, fondato su pratiche di collaborazione, condivisione del potere e valorizzazione della soggettività collettiva. La leadership generativa, collegata a questa, si concentra sull’emergere di nuove soggettività e sulla costruzione di significati condivisi, attivando processi creativi e trasformativi all’interno delle organizzazioni.

Il contributo della psicoanalisi lacaniana risulta fondamentale per interpretare la leadership come funzione simbolica. Secondo tale prospettiva, la leadership agisce come “significante padrone” che organizza e stabilizza il campo sociale e simbolico, ma che nel modello generativo non si manifesta come imposizione rigida, bensì come apertura a un campo plurale, in cui più soggettività trovano spazio e possibilità di espressione.


La leadership nel Terzo Settore: pratiche distribuite e soggettività generative

Nel Terzo Settore, che include cooperative sociali, associazioni, enti non profit e realtà di economia sociale, la leadership generativa si manifesta in forme situate, distribuite e relazionali. Queste forme si fondano su valori di partecipazione, inclusione e mutualità, distinguendosi da modelli aziendalistici tradizionali.

Gli operatori sociali, educatori professionali, psicologi e figure di coordinamento svolgono funzioni di leadership diffusa, in cui il ruolo formale non coincide con l’esercizio effettivo della funzione simbolica di guida e facilitazione. La leadership qui è lavoro simbolico e relazionale, capace di integrare le diversità e di favorire processi di empowerment.

Esempio 1: un progetto di inclusione sociale in una grande città

In un’organizzazione dedicata all’inclusione sociale di persone in situazione di vulnerabilità, la leadership è distribuita tra educatori, mediatori culturali e coordinatori, che insieme costruiscono spazi di dialogo e decisione condivisa. La pratica di leadership generativa ha permesso di superare rigidità organizzative e di valorizzare le competenze e le esperienze dei singoli, migliorando la qualità degli interventi e la coesione interna.

Esempio 2: una rete territoriale per il sostegno alle famiglie

Una rete di enti del Terzo Settore impegnata nel sostegno alle famiglie ha sviluppato un modello di leadership situata, in cui i leader locali agiscono come facilitatori di processi di co-progettazione e mediazione tra diversi attori sociali. La leadership non è concentrata in un singolo soggetto, ma si distribuisce e si adatta alle diverse situazioni, promuovendo una governance partecipata e inclusiva.


Sindacalismo critico: laboratorio di leadership generativa

Anche nel campo sindacale, in particolare nei sindacati di base, si osserva un’importante evoluzione verso forme di leadership generativa e distribuita. Questi sindacati promuovono pratiche di autorganizzazione, partecipazione diretta e costruzione collettiva di strategie, mettendo in discussione i modelli tradizionali di rappresentanza verticale.

In questo contesto, la leadership si esprime come capacità di attivare soggettività multiple, riconoscere la pluralità delle identità lavorative e mediare i conflitti trasformandoli in momenti di innovazione sociale e culturale.

Esempio 3: rappresentanza dei lavoratori della gig economy

Un sindacato di base ha avviato una campagna di rappresentanza per lavoratori della gig economy, tipicamente frammentati e privi di tutele tradizionali. La leadership collettiva e assembleare ha permesso di costruire reti di solidarietà e di rivendicazione che intrecciano istanze economiche con pratiche culturali, favorendo una nuova soggettività politica dei lavoratori digitali.



Il ruolo di psicologi e educatori nel Terzo Settore

Psicologi, educatori professionali e assistenti sociali sono attori fondamentali della leadership generativa nel Terzo Settore. Non solo svolgono compiti tecnici, ma incarnano funzioni simboliche e relazionali che favoriscono la soggettivazione degli utenti, la mediazione culturale e la costruzione di comunità inclusive.

Gli psicologi, in particolare, contribuiscono come mediatori simbolici, sostenendo la trasformazione dei conflitti in risorse e facilitando processi di empowerment. Gli educatori professionali, con la loro capacità di facilitare dinamiche di gruppo e di relazione, rappresentano spesso nodi centrali nella rete di leadership distribuita.


Conclusioni

La leadership postmanageriale e generativa nel Terzo Settore si configura come una risposta strategica alle sfide poste dalle trasformazioni economiche, sociali e tecnologiche in atto. Essa implica una ridefinizione della leadership stessa, intesa come processo collettivo, distribuito e situato, capace di integrare dimensioni simboliche, relazionali e organizzative.

In questa prospettiva, il Terzo Settore diventa un laboratorio privilegiato per sperimentare forme di leadership che siano creative, inclusivi e politicamente significative, contribuendo a costruire comunità resilienti e capaci di innovazione sociale.


Bibliografia essenziale

  • Argyris, C., & Schön, D. (1978). Organizational Learning: A Theory of Action Perspective. Addison-Wesley.
  • Bennis, W. G. (2003). On Becoming a Leader. Basic Books.
  • Foster, R., & Kaplan, S. (2001). Creative Destruction. Crown Business.
  • Lacan, J. (1972). Le séminaire, Livre VIII: Le transfert. Seuil.
  • Magatti, M. (2019). La società in guerra. Il Mulino.
  • Ricketts, E. (2018). Generative Leadership in Practice. Palgrave Macmillan.
  • Ropo, A., & Salovaara, P. (2017). Leadership-as-Practice. Routledge.
  • Senge, P. M. (1990). The Fifth Discipline. Doubleday.
  • Wheatley, M. J. (2006). Leadership and the New Science. Berrett-Koehler.

sabato 24 maggio 2025

La notte come soglia: lettura lacaniana di “Di notte” di Mariangela Gualtieri

Notte come soglia



“Di notte” di Mariangela Gualtieri

Di notte
le mille faccende riposte
il chiacchierio delle cose
ottuso chiuso a chiave nello scrigno nero
e il tempo davanti pare esteso
e le stelle mandano lo sfolgorio
fin dentro le mie pupille chiuse.

Che notte di neve meravigliosa
dentro, nelle falde del cuore acceso
a tutto motore, che partitura
di silenzio e di luce.

Domani ancora caricheremo il fardello
faremo la fatica delle sporte
dolorose e del peso. Domani
tenteremo di destreggiarci
fra le spine del giorno.
Staremo nel precipizio delle faccende.
E poi di nuovo la notte col suo premio
di sospensione distesa.

La notte
che talmente avvicina l’oltretomba
e tutto il di là della vita
con le creature addormentate nel bosco
e la sua corda tesa di buio.

La notte su metà del pianeta
con mani addormentata sui cuscini
e occhi che si chiudono dentro tutte le case.

E ora da qui, dal nocciolo più interno
della notte, rifletto e accetto
l’alta compitazione, l’investitura
in scrittura terrestre, della sacrosanta vita
attutita, come imbottita e sepolta
nei corpi del genere umano.



Nella poesia “Di notte”, Mariangela Gualtieri ci conduce in uno spazio-tempo sospeso, dove il linguaggio si attenua, le cose tacciono, e si apre una soglia densa di silenzio e interiorità. Da un punto di vista psicoanalitico lacaniano, la notte evocata dalla poetessa può essere letta come il momento privilegiato in cui il soggetto, liberato dalla pressione del discorso dominante del giorno, si confronta con il proprio desiderio, con il Reale, e forse — in forma embrionale — con la possibilità di rilanciare un nuovo significante padrone (S1).

1. La sospensione del Simbolico e l’apertura al Reale

Gualtieri apre la poesia con l’immagine di un mondo che si ritira: “le mille faccende riposte”, “il chiacchierio delle cose ottuso, chiuso a chiave”. È il momento in cui il Simbolico dominante, con i suoi imperativi di efficienza, utilità e produttività, si ritira, lasciando spazio a un vuoto fertile. La notte non è solo assenza di luce, ma assenza di senso obbligato, una partitura di silenzio e di luce che apre la possibilità di un’altra scrittura, di un’altra articolazione soggettiva.

Qui si fa sentire il Reale, non come trauma brutale, ma come presenza viva e notturna, avvertita nel corpo: “il cuore acceso a tutto motore”. Un godimento, forse, che sfugge alla presa del Nome-del-Padre, e che si avvicina al godimento femminile indicato da Lacan nel Seminario XX — un godimento Altro, non tutto simbolizzabile.

2. Il soggetto nella notte: sospeso tra veglia e sogno

La notte descritta da Gualtieri non è semplicemente un tempo del riposo, ma un tempo in cui il soggetto si raccoglie, riflette, e accetta un compito: “dal nocciolo più interno della notte, rifletto e accetto l’alta compitazione”. In termini lacaniani, qui il soggetto non è più parlato dall’Altro, ma si assume come causa del proprio desiderio. La “scrittura terrestre” può allora essere vista come una forma di investitura soggettiva, il rilancio di un nuovo S1, che non domina, ma orienta.

Questo S1 è radicalmente diverso da quello del giorno, fatto di “fardelli”, “sporte dolorose”, “spine del giorno”: tutti segni del discorso del padrone moderno, che aliena il soggetto nella sua funzione sociale. La notte invece offre la possibilità di articolare un S1 singolare, forse poetico, forse etico, che nasce dall’esperienza del Reale e dalla sospensione del già-detto.

3. Il rilancio di un nuovo S1

In questa sospensione, possiamo leggere la notte come tempo propizio per rilanciare un nuovo significante padrone, non imposto dall’Altro, ma emerso dal fondo del soggetto. Questo nuovo S1 non è normativo, ma segnale di un altro possibile discorso, più vicino alla vita, alla fragilità, alla finitudine condivisa. La poesia stessa, nella sua forma, è già esempio di questo altro S1, che non comanda ma chiede ospitalità nel linguaggio.

Possiamo ipotizzare che questo S1 notturno — fragile, terreno, scritto — sia un S1 del legame, non della prestazione; un S1 che nomina la “sacrosanta vita attutita” nei corpi umani, e non la vita performante, visibile, riconosciuta. È, in questo senso, un S1 sottratto all’economia della visibilità, e perciò prossimo all’etica psicoanalitica del desiderio: non ciò che realizza, ma ciò che orienta nella notte.

4. Conclusione: un altro discorso è possibile

La notte di Gualtieri è un invito a sospendere il dominio dell’S1 diurno e a rendere possibile un altro discorso, fondato non sul comando, ma sulla scrittura del desiderio. In essa il soggetto non è annullato, ma trasfigurato dal silenzio e dalla possibilità di nominare altrimenti la propria vita.

In un’epoca segnata dal dominio dei discorsi tecnocratici e prestazionali, la poesia — e la notte che la rende possibile — possono essere lette come spazi di resistenza simbolica. Luoghi dove l’Altro non impone, ma ascolta, e dove il soggetto può rilanciare un S1 proprio, fragile e sacro, capace di dare inizio a un discorso più umano.


giovedì 22 maggio 2025

"Verrà la morte e avrà i tuoi occhi" di Cesare Pavese: una lettura lacaniana


Verrà la morte


Verrà la morte e avrà i tuoi occhi 

– questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla.

Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.

Cesare Pavese 


"Verrà la morte e avrà i tuoi occhi", scritta da Cesare Pavese tra marzo e giugno del 1950, è forse il testo più nudo, tragico e radicale dell’intera sua opera. Ultimo approdo della sua scrittura poetica e insieme testamento esistenziale, questa poesia rappresenta l’incontro del soggetto con il reale, là dove il simbolico vacilla e il desiderio si confronta con la sua impossibilità.

1. Biografia e bibliografia: un ritorno alla poesia come sinthomo

La poesia appartiene a un piccolo ciclo postumo, pubblicato nel 1951, poco dopo il suicidio di Pavese. Dopo anni dedicati alla narrativa (La casa in collina, Il diavolo sulle colline, La luna e i falò), Pavese ritorna alla forma lirica, ma non più nella modalità epica e narrativa di Lavorare stanca. Qui la poesia è essenziale, concentrata, assoluta. È il suo sinthomo nel senso lacaniano: una forma di legame soggettivo con il reale, che tiene insieme ciò che non può essere simbolizzato — il lutto, la mancanza, il godimento.

In questa fase finale della sua vita, Pavese appare disarmato, incapace di trovare ancora riparo nel mito (come nei Dialoghi con Leucò) o nella cultura. Resta solo il corpo a corpo con la mancanza: una scrittura che si fa confessione, ma anche soglia di sparizione del soggetto.

2. Lo sguardo dell’Altro come oggetto a

Il verso iniziale — "Verrà la morte e avrà i tuoi occhi" — è già tutto un programma di svelamento. In esso, la morte non ha volto proprio, ma assume quello dell’amata. Si affaccia così il reale nel luogo dell’Altro: la Cosa (das Ding) si iscrive nello sguardo dell’amore. Non si tratta di un amore consolante, ma dell’incontro traumatico con il godimento che eccede il senso, con l’oggetto a che abita lo sguardo dell’Altro.

In Lacan, lo sguardo è oggetto pulsionale: non restituisce l'immagine rassicurante dell’Io, ma la buca, la inquieta. Gli occhi dell’amata sono allora il punto in cui il soggetto si smarrisce, non perché tradito, ma perché esposto all’eccesso del godimento, al buco del significante.

3. Morte e desiderio: il fallimento dell’amore simbolico

Lacan insegna che l’amore cerca di colmare la mancanza dell’Altro, ma senza riuscirci: è sempre disallineato, sospeso. Qui, l’amore è totalmente attraversato dal fallimento: non resta parola che tenga, solo un volto che coincide con la morte. L’Altro amato si rivela non come garanzia simbolica, ma come luogo della perdita.

La poesia lacanianamente mostra che non c’è Nome-del-Padre che possa rappresentare il lutto. L’amata è reale, assoluta, non mediabile: rappresenta quella parte dell’Altro che non risponde, che uccide. In questo senso, l’amore non è redenzione, ma catastrofe.

4. Godimento e pulsione di morte

Nel testo si avverte una jouissance che non passa più attraverso il desiderio, ma si coagula in una pulsione di morte, in un abbandono alla fine. L’io poetico è incollato all’oggetto a, senza più possibilità di separazione simbolica. Non c’è sublimazione, né trasfigurazione. Solo l’essenziale: l’incontro tra il soggetto e il reale del godimento, che non può essere detto ma solo subito.

5. Scrivere per scomparire: il soggetto come resto

Se in Lavorare stanca il soggetto si collocava nel mondo, nella storia e nel paesaggio, qui si dissolve. La scrittura non è più gesto di fondazione, ma atto terminale. Pavese scrive la poesia come atto ultimo, non tanto per dire qualcosa, quanto per testimoniare il punto in cui la parola fallisce e resta solo l’oggetto del godimento.

In questo senso, Verrà la morte è anche una poesia sul fallimento del simbolico: non c’è elaborazione, non c’è lutto, solo l’apparizione cruda della fine.


Conclusione

"Verrà la morte e avrà i tuoi occhi" è uno dei testi più potenti della letteratura italiana del Novecento proprio perché è anche uno dei più puri esempi dell’incontro tra poesia e reale. In essa Pavese mostra ciò che nella sua opera era sempre stato latente: il desiderio come mancanza, l’amore come impossibilità, il soggetto come resto.

Letta nell’orientamento lacaniano, la poesia rivela la struttura profonda dell’esperienza soggettiva: il volto dell’amore come luogo della perdita, lo sguardo dell’Altro come oggetto a, la scrittura come sinthomo per tenere insieme ciò che altrimenti crolla.

Una poesia che, come il desiderio stesso, non consola. Ma dice — con precisione vertiginosa — l’impossibile da dire.



mercoledì 21 maggio 2025

La funzione-Dio nelle tre strutture: nevrosi, psicosi, perversione


Nel discorso analitico, “Dio” non è trattato come oggetto di fede o entità religiosa, ma come funzione simbolica. Lacan lo dice con radicalità: “Dio è inconscio”, nel senso che il soggetto, anche se ateo, si rivolge inconsciamente a un Altro che sa e che garantisce. In questo quadro, la funzione-Dio assume modulazioni specifiche nelle tre strutture fondamentali: nevrosi, psicosi, perversione.


1. La funzione-Dio nella nevrosi: il garante mancante del senso

Nel nevrotico, Dio è il luogo dell’enigma: “Cosa vuole da me?” Il Nome-del-Padre è simbolicamente operante, ma non fornisce un senso pieno; anzi, proprio l’incompletezza della Legge genera la domanda nevrotica. L’Altro (che può assumere i tratti di Dio, del padre, dell’ideale) è sentito come desiderante, ma indecifrabile. La colpa nevrotica deriva da questa opacità del desiderio dell’Altro.

Il soggetto nevrotico, pur non credendo consapevolmente in Dio, lo mantiene come ipotesi interna del discorso: è l’Altro supposto sapere, colui che potrebbe garantire un senso pieno all’esistenza, se solo parlasse chiaramente.

Esempio clinico (isteria):
Una giovane donna soffre di crisi d’ansia legate all’idea di deludere “le aspettative”. In analisi, emerge che tali aspettative non appartengono ai genitori reali, ma a una figura più alta, universale, che lei nomina talvolta come “Dio”, talvolta come “il Destino”. La sua sintomatologia (astenia, senso di fallimento, fobia del giudizio) è alimentata dal fantasma di un Dio che la guarda e la giudica, ma non le dice mai chiaramente cosa fare. L’analisi non rimuove Dio, ma permette di farlo scendere dal posto dell’Altro assoluto.

Esempio clinico (ossessione):
Un uomo crede di dover compiere gesti rituali quotidiani “per evitare il caos”. Non crede in Dio, ma dice: “è come se ci fosse un ordine cosmico da non turbare”. Qui, la funzione-Dio si annida nel bisogno di garantire il legame tra atto e senso. Il suo sintomo è un modo per tenere Dio al suo posto — come garante di un ordine simbolico che protegge dal godimento invasivo.


2. La funzione-Dio nella psicosi: presenza reale, non simbolizzata

Nella psicosi, il Nome-del-Padre è forcluso: non entra mai nella catena simbolica. Per questo, la funzione-Dio non può operare come mediatore tra il soggetto e l’Altro, ma si presenta come invasione reale, come presenza non simbolizzabile. Dio si manifesta come voce, comando, visione. Non si tratta più di un Dio interrogato, ma di un Dio che invade, che parla direttamente, spesso senza intermediazione linguistica.

Lacan, nel Seminario III, nota come “il delirio è un tentativo di ricostruire il simbolico perduto”. In molte psicosi, la funzione-Dio è centrale nella costruzione delirante: Dio è l’ordinatore del mondo, l’origine della missione, il motore della persecuzione.

Esempio clinico (schizofrenia paranoide):
Un paziente sente “la voce di Dio” che gli ordina di osservare certi rituali e punirsi se non li compie. Le voci non sono allucinazioni vaghe, ma soggettivazioni precise del comando divino. Dio non è più significante del desiderio dell’Altro, ma presenza intrusiva che occupa il posto vuoto lasciato dalla forclusione. L’analista, in questi casi, deve cercare un punto di aggancio simbolico, a partire dall’invenzione soggettiva — il delirio, il disegno, la scrittura.

Esempio clinico (psicosi mistica):
Una donna si presenta affermando di essere “sposa di Cristo”. Non vi è traccia di delirio persecutorio, ma un’identificazione assoluta con il sacro. Racconta di sentire estasi mistiche, di ricevere messaggi dall’aldilà. Il Dio che l’abita non è più una metafora, ma una presenza vissuta nel corpo. L’analisi qui non punta a “smontare” la fede, ma a sostenere un minimo di separazione tra soggetto e Altro.


3. La funzione-Dio nella perversione: garante del godimento dell’Altro

Nella perversione, la Legge non è forclusa né interrogata, ma teatralizzata. Il soggetto perverso si fa strumento della Legge, si pone al servizio del godimento dell’Altro. La funzione-Dio può apparire come spettatore, come mandante occulto, o come garanzia della legittimità dell’atto.

Lacan, nel Seminario XI, dice che “il perverso fa da oggetto a per la causa del desiderio dell’Altro”. Ma spesso lo fa invocando un fondamento sacro: la giustizia, la verità, Dio stesso. In alcuni casi, la funzione-Dio è direttamente coinvolta nel fantasma: Dio guarda, approva, impone.

Esempio clinico (sadismo religioso):
Un uomo pratica atti di punizione sulla partner, dicendo che “è giusto così, come dice la Bibbia”. Il riferimento a Dio non è metaforico: funge da garanzia esterna che rende l’atto non colpevole, anzi, giusto. Qui Dio viene messo in scena come Legge incarnata, come Altro che gode dell’atto punitivo.

Esempio clinico (feticismo e colpa):
Un soggetto feticista prova un senso di colpa non tanto per il godimento, quanto per “essere fuori dal disegno di Dio”. In analisi, emerge che Dio è usato come istanza morale che condanna il godimento non conforme. Ma, nello stesso tempo, la colpa mantiene in vita il godimento stesso. Dio è così usato come garante della trasgressione, non come limite.


Conclusione: Dio come funzione variabile del discorso

La clinica lacaniana non si occupa della fede come fatto sociologico o spirituale, ma della funzione simbolica del “posto di Dio” nel discorso. Che lo si neghi o lo si invochi, Dio opera nel soggetto come funzione dell’Altro: come Legge, come desiderio, come comando, come scena.

In nevrosi, Dio è il garante mancante del senso; in psicosi, è presenza reale, invadente; in perversione, è il mandante del godimento dell’Altro. L’analisi permette, in ogni struttura, di disfare il legame tra Dio e godimento, tra Dio e colpa, tra Dio e comando — non per eliminare la religione, ma per restituire al soggetto la responsabilità del proprio desiderio.


Bibliografia essenziale

  • Lacan, J. (1955-56). Seminario III: Le psicosi. Einaudi.
  • Lacan, J. (1964). Seminario XI: I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. Einaudi.
  • Lacan, J. (1974). “Dio è inconscio”. Intervista con Emilio Granzotto (in Lacan in Italia).
  • Freud, S. (1927). L’avvenire di un’illusione. Opere, Bollati Boringhieri.
  • Mannoni, M. (1969). Il bambino, il suo “insegnante” e la psicoanalisi. Raffaello Cortina.
  • Safouan, M. (1992). Lacaniana. Laterza.


"Dio è inconscio": Ateismo e funzione-Dio nella clinica lacaniana, tra teoria e casi clinici


Abstract

Lacan sostiene che "Dio è inconscio", intendendo che la funzione divina è iscritta nel discorso del soggetto, come garanzia simbolica, legge, o sapere assoluto. Questo articolo esplora come tale funzione si manifesti clinicamente, anche nei soggetti atei, e come l'attraversamento della funzione-Dio sia un momento chiave nella cura analitica. Il testo integra riferimenti teorici, esempi clinici e situazioni educative, offrendo uno sguardo concreto sul modo in cui la psicoanalisi lacaniana affronta la questione dell'ateismo. Viene inoltre approfondita la distinzione tra ateismo soggettivo e ateismo clinico, mostrando le implicazioni etiche di tale distinzione nella pratica psicoanalitica contemporanea.


1. Introduzione

La famosa frase di Lacan “Dio è inconscio” (Lacan, 1974) non va intesa come un'affermazione teologica, ma come l'indicazione che nel discorso dell'inconscio vi è una funzione che funge da garante simbolico, sostegno dell'ordine del senso. Non si tratta tanto della fede religiosa, quanto della funzione che Dio assume nel discorso del soggetto: legge, sapere, amore assoluto, giudizio morale, ecc. Il "Dio" lacaniano è un Nome-del-Padre, un significante che chiude il senso, lo garantisce. Anche l'ateismo è, dunque, un fenomeno clinico: può essere un attraversamento oppure una nuova forma di assolutismo, camuffata da negazione.

Nell'epoca contemporanea, in cui l'Altro simbolico si mostra spesso in crisi, il ritorno di forme religiose fondamentaliste, oppure di nuove forme di religiosità laiche (scienza assoluta, giustizia integrale, amore puro), mostra quanto la funzione-Dio sia resiliente nella soggettività.


2. La funzione-Dio nell'inconscio

Nel Seminario III Lacan introduce la nozione di Nome-del-Padre come significante che introduce la legge nel desiderio (Lacan, 1956). Questo significante struttura l'inconscio e la posizione del soggetto rispetto all'Altro. Quando questo significante è troppo rigido o viene forcluso, emergono le psicosi o forme di assolutismo simbolico.

La funzione-Dio è una delle forme che il Nome-del-Padre può assumere: Dio come Sapere, come Legge, come Amore totale, come Giudice. Essa si rende visibile in vari quadri clinici, e anche nel campo educativo e sociale. L’analisi può produrre un attraversamento di questa funzione, che Lacan descrive come l’assunzione della mancanza nell’Altro (Lacan, 1972-73).

Nel Seminario XX, Lacan distingue il godimento fallico, ancorato al senso, da un godimento che sfugge alla funzione del Nome-del-Padre. In questo senso, l'ateismo clinico non consiste semplicemente nel rifiuto di Dio, ma nel collocarsi in un discorso che non necessita più di un garante assoluto del senso, accettando l'assenza di garanzia nell'Altro.


3. Casi clinici: la funzione-Dio in atto

3.1 M.: il Dio-sapere assoluto

M., 28 anni, ingegnere ateo, si presenta per ansia e vuoto esistenziale. Nel suo discorso appare un attaccamento totalizzante al sapere scientifico, che considera l'unica fonte di verità. Ogni errore lo paralizza, ogni incertezza lo disorienta. Il suo "Dio" è un Altro che sa tutto, infallibile, che esige prestazione e controllo. La clinica lavora sulla decostruzione di questa idealizzazione del sapere: attraverso il fallimento del sapere assoluto emerge la possibilità di desiderare senza garanzie.

Durante il percorso, M. sogna una macchina perfetta che però si inceppa a causa di un filo invisibile: quel filo è il suo desiderio, escluso dal discorso ingegneristico. L’analisi lavora sul riconoscimento di questa presenza perturbante e sul suo valore simbolico.

3.2 A.: il Dio-amore totalizzante

A. è madre di un bambino con disabilità. Vive il suo ruolo come missione assoluta: deve amare senza limiti, senza errori. La colpa la travolge se prova stanchezza o ambivalenza. Il suo "Dio" è un Altro che la chiama a essere madre perfetta. L’analisi, qui, lavora sulla separazione simbolica: A. può accettare che l'amore includa mancanza, desiderio, frustrazione. Non è Dio, è soggetto diviso.

In un sogno ricorrente, A. si vede vestita da infermiera in una chiesa vuota. Nessuno arriva, e lei si dispera. Questo sogno mostra il legame tra servizio e sacralità, ma anche la sua solitudine. L’interpretazione rompe il circuito del dovere e apre la possibilità di un desiderio proprio.

3.3 G.: il Dio-giudice morale

G. è attivista politico con una visione etica inflessibile. Ogni deviazione dalla "giustizia" va punita. Il suo Altro è un Dio giudicante, che comanda una legge senza ambiguità. La clinica rivela il godimento nell'indignazione, nel giudicare. L’analisi permette di mettere in discussione il rapporto al giudizio, e apre a un'eticità più umana, non totalitaria.

Un episodio chiave accade quando G. confessa di provare sollievo quando un collega viene escluso da un progetto: è la prima volta che ammette il suo godimento. Da quel momento, il discorso cambia: comincia a interrogare la sua posizione soggettiva, piuttosto che sostenere un Altro infallibile.


4. Attraversamento della funzione-Dio

4.1 La mancanza nell’Altro

Lacan, nel Seminario XX, afferma che l’Altro “non è tutto”. Non c'è garanzia finale, sapere assoluto, legge perfetta. L’attraversamento della funzione-Dio è l'assunzione di questa mancanza: non esiste un significante che chiuda il senso del mondo. Questo permette l'emergere del soggetto del desiderio, non più garantito da un Altro onnipotente.

4.2 Il sinthomo: una nuova ancoraggio

Nel Seminario XXIII, Lacan introduce il concetto di sinthome, come nodo singolare tra Reale, Simbolico e Immaginario. Dopo l’attraversamento della funzione-Dio, il soggetto può scrivere la propria maniera di tenersi nel mondo, senza ricorrere a garanzie totali. M. si dedica a un progetto creativo che integra sapere e desiderio. A. riorganizza la propria maternità attorno a un desiderio vivibile. G. apre un nuovo spazio etico fondato sull'ascolto.


5. Educazione e funzione-Dio: una breve nota

In ambito educativo, la funzione-Dio si manifesta come idealizzazione dell'educatore, o come dovere assoluto verso l'Altro fragile. In un gruppo educativo con soggetti disabili, si è osservata la tendenza dell'équipe a farsi garante assoluto della coerenza simbolica del gruppo. Solo il lavoro sul limite e sull'assunzione del desiderio personale ha permesso la nascita di un luogo simbolico ospitale, non totalitario.

Al contempo, l’educatore può proiettare sull’Altro (l'utente) una funzione-Dio negativa: onnipotente nella sua sofferenza, impossibile da soddisfare. In questo senso, l’attraversamento passa anche attraverso l’accettazione della mancanza nell’Altro disabile, della sua parziale indifferenza al nostro investimento.


Conclusione

"Dio è inconscio" significa che Dio, o meglio la sua funzione, è nel discorso del soggetto. L’ateismo clinico è il processo attraverso cui il soggetto attraversa questa funzione, accetta la mancanza, rinuncia al sapere assoluto e scrive il proprio sinthome. Non è una negazione, è un riposizionamento etico e simbolico. Il compito dell'analisi non è distruggere Dio, ma mostrare la sua funzione simbolica e aprire il soggetto alla mancanza costitutiva, condizione per un'etica del desiderio.


Bibliografia

  • Lacan, J. (1956). Il Seminario III: Le psicosi. Torino: Einaudi.
  • Lacan, J. (1964). Il Seminario XI: I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. Torino: Einaudi.
  • Lacan, J. (1972-73). Il Seminario XX: Ancora. Torino: Einaudi.
  • Lacan, J. (1975-76). Il Seminario XXIII: Il sinthomo. Roma: Astrolabio.
  • Lacan, J. (1974). Conferenza a Roma: "Discorso agli italiani" (parafrasi).


L'odio nel transfert e nel controtransfert: una lettura lacaniana, con un confronto con Klein e Winnicott


L’odio, come dimensione soggettiva e relazionale, ha una presenza centrale nella clinica psicoanalitica, soprattutto quando si manifesta nel transfert e nel controtransfert. Nella prospettiva lacaniana, questa affettività primaria assume una valenza strutturale e non meramente accidentale, come invece potrebbe apparire in approcci più adattivi o evolutivi. Non si tratta semplicemente di un ostacolo alla cura, bensì di un momento rivelatore della struttura del soggetto e del suo rapporto con l’Altro.


L'odio nel transfert

Jacques Lacan ha affrontato la questione dell'odio all'interno della relazione transferale, in particolare nella lezione del 20 aprile 1960 del Seminario L’etica della psicoanalisi, dove, rifacendosi ad Aristotele, pone l’odio (misos) come l’affetto che mira all’essere dell’altro, mentre l’amore ne mira il bene. L’odio, in quanto tale, non è secondario rispetto all’amore: è della stessa stoffa. Nella relazione analitica, il soggetto può manifestare un odio tenace e violento verso l’analista, che non va inteso in senso personale ma come effetto del posto simbolico che l’analista occupa, quello di causa del desiderio e luogo dell’Altro.

L’analista, infatti, in quanto sostituto del soggetto supposto sapere (sujet supposé savoir), è chiamato a sostenere proiezioni e investimenti che mettono in gioco nuclei profondi della pulsione, del fantasma e della storia soggettiva. L’odio può emergere quando l’analista tocca o smaschera il godimento inconscio legato alla sofferenza, o quando il soggetto percepisce un’opacità nel suo desiderio. È spesso nel momento in cui l’analista si sottrae, non soddisfa la domanda d’amore, che il soggetto risponde con aggressività e odio.


Il desiderio dell’analista e la posizione etica

Nel Seminario XI (I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi), Lacan insiste sul concetto di "desiderio dell’analista" come ciò che orienta la cura. Questo desiderio non è desiderio personale, ma desiderio puro, spogliato, che non mira a soddisfare, né a rassicurare. È un desiderio che accetta l’odio del paziente, che lo attraversa, che ne sostiene l’elaborazione. L’analista è chiamato a sostenere la posizione di oggetto a, oggetto causa del desiderio, e quindi a tollerare di essere ridotto a cosa, a oggetto di odio, a rifiuto, senza retrocedere.

Il desiderio dell’analista implica una funzione di “buca” nel sapere: si tratta di non voler sapere tutto, di non pretendere di colmare l’Altro, ma di sostenere il vuoto strutturale che abita il soggetto. È proprio questa posizione che permette al transfert di evolvere e di aprirsi al movimento interpretativo e all’atto analitico. Come scrive Lacan nel Seminario XI, “Il desiderio dell'analista non è puro desiderio di guarire. È desiderio che ha incontrato la sua propria castrazione”.


Controtransfert e limite della reattività dell’analista

L’odio non appartiene solo al paziente. Come sottolinea Lacan nel Seminario VIII (Il transfert), l’analista non è immune dalle passioni. Tuttavia, per Lacan, è proprio l’analista che deve lavorare perché le sue passioni non interferiscano. Il concetto di controtransfert, sviluppato in area post-freudiana (es. Heimann, Racker), è ridimensionato da Lacan: l’analista deve rendere la propria posizione quanto più impersonale possibile, non perché si annulla, ma perché la sua soggettività deve diventare funzione.

L’odio dell’analista, quindi, può emergere nella pratica, soprattutto in ambito istituzionale dove i fenomeni di transfert negativo sono amplificati da dinamiche di gruppo, gerarchia e potere. In questi casi, mantenere il desiderio come causa e non come risposta reattiva è ancora più difficile. Il rischio è quello del godimento dell’analista, che si difende attraverso l’identificazione con un sapere o con un ruolo, invece di lasciarsi lavorare dal transfert.


Esempi dalla pratica istituzionale

In contesti educativi o terapeutici con soggetti psicotici o con disabilità, si osserva spesso un transfert negativo massiccio: rifiuto dell’educatore o dell’operatore, insulti, disorganizzazione comportamentale. Un esempio è il caso di un giovane con psicosi che durante il gruppo occupazionale, ad ogni proposta dell’operatore, risponde con l’insulto più feroce e minaccioso. L’operatore, se non è sostenuto da una supervisione e da un’elaborazione simbolica della sua funzione, rischia di rispondere in modo simmetrico: disprezzo, ironia, punizione. È qui che si gioca la possibilità di una funzione analitica o almeno simbolizzante: accettare di essere oggetto dell’odio, e non volerlo colmare con l’amore o con la pedagogia del bene.


Confronto con Melanie Klein e Donald Winnicott

Melanie Klein ha tematizzato a fondo l’aggressività primaria e l’odio nell’ambito della relazione oggettuale. Nella posizione schizo-paranoide, il bambino vive l’oggetto come persecutore, e riversa su di esso odio e distruttività. Solo attraverso l’elaborazione della posizione depressiva è possibile riconoscere l’oggetto buono e cattivo come unificato, e quindi riparare. Da questo punto di vista, l’odio nel transfert è un ritorno di quelle angosce originarie, che l’analista deve contenere e trasformare.

Winnicott, invece, si concentra sul concetto di odio dell’analista, con grande onestà clinica. Nel saggio L’odio nella contropartita terapeutica (1949), afferma che l’analista deve riconoscere e tollerare il proprio odio, soprattutto nel lavoro con pazienti gravi. L’odio che l’analista prova non è necessariamente patologico, ma espressione della realtà della situazione e della frustrazione. La differenza, per Winnicott, sta nel fatto che l’analista non agisce il suo odio, ma lo riconosce, lo sopporta e lo utilizza.

Rispetto a Lacan, sia Klein che Winnicott tendono a concepire l’odio come una fase, un contenuto da trasformare o contenere. Lacan, invece, pone l’odio come strutturale, come parte del desiderio stesso: “l’amore è sempre ricambiato dall’odio”, diceva, indicando che non si dà soggettivazione senza attraversamento del negativo.


Conclusione

Affrontare l’odio nel transfert e nel controtransfert è un passaggio necessario in ogni lavoro clinico e istituzionale che voglia avere un effetto di soggettivazione. Nella prospettiva lacaniana, l’odio non va risolto né rimosso, ma attraversato e letto come segno del reale in gioco. Il desiderio dell’analista, sostenuto dalla propria castrazione e non dal sapere, è ciò che consente di non rispondere alla provocazione, ma di mantenerne aperto il senso.


Bibliografia essenziale

  • Lacan, J. (1959-60). Seminario VII. L’etica della psicoanalisi. Torino: Einaudi, 2008.
  • Lacan, J. (1964). Seminario XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. Torino: Einaudi, 2003.
  • Lacan, J. (1960-61). Seminario VIII. Il transfert. Torino: Einaudi, 2021.
  • Klein, M. (1946). Note su alcuni meccanismi schizoidi, in Scritti 1921-1958. Firenze: Martinelli.
  • Klein, M. (1940). Invidia e gratitudine, in Scritti 1921-1958. Firenze: Martinelli.
  • Winnicott, D.W. (1949). L’odio nella contropartita terapeutica, in Sviluppo affettivo e ambiente. Roma: Armando, 1975.
  • Roussillon, R. (1991). Il transfert negativo. Roma: Borla.
  • Mannoni, M. (1969). L’enfant arriéré et la psychanalyse. Paris: Seuil.
  • Recalcati, M. (2010). Il transfert. Milano: Cortina.


martedì 20 maggio 2025

Fiabe cinesi come miti di soggettivazione: la ballata di Mulan

 
Mulan

Le fiabe tradizionali cinesi rappresentano un archivio simbolico nel quale si intrecciano elementi del pensiero confuciano, taoista e buddhista. A differenza delle narrazioni occidentali, dove la soggettivazione spesso passa attraverso la trasgressione della Legge e il confronto con un Altro mancante, in molte fiabe cinesi l’emergere del soggetto si realizza in un processo di armonizzazione etica e cosmica. La figura di Mulan, protagonista di una delle ballate più famose della tradizione cinese, costituisce un esempio paradigmatico di questa forma di soggettivazione.


1. La ballata di Mulan: trama essenziale

Nella "Ballata di Mulan" (Hua Mulan), risalente con ogni probabilità al periodo delle dinastie Wei del Nord (IV-VI secolo), la protagonista si traveste da uomo per prendere il posto del padre malato nell’esercito imperiale. Per dodici anni combatte valorosamente, rifiuta ogni ricompensa alla fine della guerra e torna a casa per riprendere la sua vita di figlia, rivelando solo allora la sua identità femminile.


2. L’atto etico di Mulan

Mulan compie un gesto che, nella logica confuciana, è allo stesso tempo una trasgressione e una massima espressione della pietà filiale (xiao). L’assunzione del posto del padre nell’esercito è un atto che rompe l’ordine dei ruoli sociali (una donna non può diventare guerriera), ma lo fa in nome dell’ordine morale superiore. In termini lacaniani, potremmo interpretare questo gesto come un atto soggettivante in senso pieno: Mulan non cede sul suo desiderio (ne cede pas sur son désir), che non è desiderio dell’Altro, ma adesione a una verità interiore, che trascende l’identità di genere e la funzione simbolica assegnata.


3. Travestimento e attraversamento dell’Immaginario

Il travestimento maschile non è un semplice inganno, ma un dispositivo simbolico. Mulan non assume l’identità maschile per desiderio mimetico o per ambizione personale, ma per assumere una funzione che le è eticamente necessaria. In questo senso, l’identificazione non è piena: ella resta soggetto nel travestimento, non si dissolve nell’identità maschile. Si può leggere questa operazione come una sospensione dell’Immaginario e una riconfigurazione del Simbolico, dove la posizione soggettiva è mobile, non fissata da un Nome-del-Padre ma orientata da una verità soggettiva.


4. Il ritorno: la soggettivazione senza trionfo

A differenza degli eroi occidentali, Mulan non cerca gloria né riconoscimento. Dopo anni di guerra, rifiuta onori e titoli e torna semplicemente alla sua vita. Il suo atto non è narrato come una forma di emancipazione individualistica o di affermazione narcisistica. È, al contrario, una soggettivazione in sottrazione: il soggetto si realizza attraverso il silenzio, la continuità, la fedeltà alla funzione assunta.

In termini lacaniani, non vi è qui un accesso all’oggetto a, né una simbolizzazione della mancanza dell’Altro, quanto piuttosto una soggettivazione che si dà al di fuori della dialettica edipica. L’Altro nella fiaba cinese è spesso impersonale: è la Legge morale, l’ordine naturale, il Tao. Il soggetto non deve confrontarsi con la castrazione del Padre, ma con l’armonia del mondo e con la responsabilità etica.


5. Confronto con le figure occidentali

Mulan può essere paragonata a figure come Antigone, Giovanna d’Arco o persino il Principe Ivan delle fiabe russe. Tuttavia, vi sono profonde differenze:

  • Antigone afferma la legge non scritta degli dèi contro quella dello Stato. Il suo desiderio è assoluto, e la conduce alla morte. Mulan, invece, agisce per una legge etica senza sfidare apertamente l’ordine imperiale. Non muore, ma si reintegra nel quotidiano.
  • Giovanna d’Arco è spinta da un comando divino. La sua soggettività si costituisce nella voce dell’Altro, che è però un Altro cristiano, personale. Mulan non sente voci: ascolta il proprio senso etico interno, più vicino al vuoto taoista che al Dio cristiano.
  • Il Principe Ivan compie un viaggio iniziatico, affronta prove simboliche e alla fine conquista un oggetto del desiderio (la principessa, il fuoco, l’uccello). La soggettivazione di Ivan è tragica e desiderante. Mulan, invece, attraversa la guerra senza cercare un oggetto, e ritorna con discrezione. La sua soggettività si definisce per l’assenza di appropriazione.


6. Conclusione

La figura di Mulan, letta psicoanaliticamente, ci mostra un modello alternativo di soggettivazione. Non un soggetto tragico, segnato dalla mancanza, ma un soggetto etico, capace di assumere una funzione simbolica senza identificarsi con essa. In questo senso, le fiabe cinesi offrono uno spazio narrativo in cui il soggetto non nasce dalla colpa o dalla trasgressione, ma dalla continuità tra sé e il mondo.

Bibliografia essenziale

  • Birrell, A. (1993). Chinese Mythology: An Introduction. Johns Hopkins University Press.
  • Idema, W. (2008). Mulan: Five Versions of a Classic Chinese Legend. Hackett Publishing.
  • Cheng, F. (2003). Vuoto e Pieno. Il linguaggio pittorico cinese. Milano: SE.
  • Lacan, J. (1978). Il Seminario. Libro XI: I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. Torino: Einaudi.
  • Lacan, J. (2007). Il Seminario. Libro VII: L’etica della psicoanalisi. Torino: Einaudi.
  • Bettelheim, B. (1976). Il mondo incantato. Milano: Feltrinelli.


lunedì 19 maggio 2025

Logica senza soggetto e mondo post-umano

Logica senza soggetto


Introduzione

La logica coordinativa, intesa come forma di razionalità volta all’armonizzazione e all’efficienza sistemica, rappresenta oggi il paradigma dominante delle istituzioni globali. Essa si configura come risposta alla crisi delle grandi narrazioni, alla decostruzione della soggettività e alla liquefazione del legame sociale. Ma cosa resta del soggetto nella società della trasparenza algoritmica e dell’ottimizzazione digitale? E quale destino per l’Occidente che ha fatto del soggetto il suo fulcro simbolico?

1. La logica coordinativa: neutralizzazione del soggetto

Come hanno anticipato Adorno e Horkheimer nella Dialettica dell’Illuminismo (1947), la razionalità occidentale, se scissa dalla dialettica, regredisce in nuova mitologia. La logica coordinativa, nella sua forma attuale, incarna questa regressione: non fonda più soggetti, ma procedure; non interroga più l’origine, ma regola il funzionamento. La sua essenza è post-simbolica.

Byung-Chul Han, ne La società della trasparenza (2012) e Psicopolitica (2014), sottolinea come il potere si eserciti oggi non attraverso la repressione, ma tramite la seduzione dell’auto-ottimizzazione. Il soggetto si trasforma in un “progetto”, governato da algoritmi e performance, e il confine tra libertà e controllo diventa opaco. La logica coordinativa è così l’architettura del nuovo biopotere: un potere che non reprime, ma induce.

2. Cristianesimo e soggettività tragica

La soggettività occidentale ha avuto nel cristianesimo un momento costitutivo: la figura del soggetto peccatore, responsabile, redento e colpevole al tempo stesso, ha fornito per secoli la base etico-politica della modernità. Come ha mostrato Lacan nei suoi Écrits (1966), il soggetto è effetto del linguaggio, prodotto di una scissione simbolica che inaugura la colpa, il desiderio, la domanda.

Nel mondo post-umano, questa figura cede il passo a una soggettività debole, funzionale, intercambiabile. Il gesto tragico (Antigone, Abramo) lascia il posto alla compliance. È la fine del soggetto etico come polo di tensione tra legge e desiderio, come nodo tragico della polis.

3. Etiche orientali e armonia sistemica

Le etiche dell’armonia orientali, come nel confucianesimo o nel taoismo, promuovono una soggettività non centrata sull’opposizione, ma sulla coesistenza funzionale. Come ha notato Peter Sloterdijk in Devi cambiare la tua vita (2009), si tratta di etiche esercitative, non traumatiche. La soggettività nasce dall’adesione a ruoli predefiniti, dall’equilibrio tra individuo e ordine sociale, non da un gesto di rottura.

Questa logica è oggi apprezzata a livello globale proprio per la sua compatibilità con l’efficienza sistemica. Ma, al prezzo dell’eliminazione dell’inizio, della trasgressione, della politica come fondazione.

4. Populismo e autoritarismo: il ritorno del rimosso

Nel vuoto simbolico lasciato dalla logica coordinativa, riemergono forme di soggettività degradate: i populismi autoritari, le derive sovraniste, i leader carismatici che promettono un ritorno all’ordine attraverso il culto della forza e dell’identità.

Il populismo – come ha sottolineato Zizek in Problemi in Paradiso (2014) – è una risposta patologica alla desoggettivazione neoliberale: non è un ritorno del soggetto, ma della sua caricatura. L’autoritarismo è il sintomo di una crisi della rappresentanza e del desiderio. È il grido che chiede un nuovo significante padrone in un mondo che ha abolito ogni verticalità.

5. Tecnica, digitale e governo degli algoritmi

La tecnica contemporanea ha esasperato la logica coordinativa, facendone non solo un paradigma politico, ma anche una struttura antropologica. Il digitale non si limita a connettere: prevede, seleziona, filtra. Come ha scritto Deleuze nel Post-scriptum sulle società di controllo (1990), siamo passati dalle società disciplinari a quelle del controllo, dove il comando è continuo e distribuito.

L’algoritmo non punisce, ma ottimizza. Non reprime, ma orienta il desiderio. Le piattaforme digitali anticipano le scelte, modellano le preferenze, definiscono la realtà. La libertà è riformulata come compatibilità, e la verità come performance. È la realizzazione della “seconda natura” di cui parlava Adorno, ma in versione cibernetica.

In questo contesto, figure come Elon Musk e Donald Trump rappresentano due esiti divergenti ma complementari: Musk incarna l’utopia tecnocratica della disintermediazione totale e della fuga nello spazio, mentre Trump rappresenta l’arcaico che ritorna, l’identità pura, la scorciatoia simbolica. Entrambi operano nel vuoto lasciato dalla scomparsa del soggetto etico-politico.

Conclusione: per una nuova clinica del soggetto

Il mondo post-umano, coordinato e ottimizzato, sembra aver superato il soggetto. Ma questo superamento non è neutro: comporta la perdita del gesto simbolico, dell’inizio, della politica.

Una clinica e una critica della logica coordinativa devono allora riaprire lo spazio del tragico, del conflitto, della fondazione. Non per nostalgia, ma per necessità. Perché senza soggetto, nessun mondo è possibile.

Bibliografia essenziale

  • Adorno, T.W., Horkheimer, M. (1947). Dialettica dell’illuminismo. Einaudi.
  • Arendt, H. (1958). Vita activa. La condizione umana. Bompiani.
  • Byung-Chul Han (2010–2014). La società della stanchezza; La società della trasparenza; Psicopolitica. Nottetempo.
  • Deleuze, G. (1990). Post-scriptum sulle società di controllo. Pourparler. Quodlibet.
  • Kantzas, P. (2011–2025). La Polis senza Creonte e senza Antigone. Lezioni Fiorentine. UNIFI ScienPo.
  • Lacan, J. (1966). Écrits. Seuil.
  • Sloterdijk, P. (2009). Devi cambiare la tua vita. Meltemi.
  • Spengler, O. (1918–1922). Il tramonto dell’Occidente. Longanesi.
  • Zizek, S. (2014). Problemi in Paradiso. Il comunismo dopo la fine della storia. Ponte alle Grazie.


Clinica e Critica della Ragione Coordinativa: Soggettività performativa e Crisi del Legame simbolico

Logica Coordinativa


1. Introduzione

La logica coordinativa rappresenta una delle configurazioni dominanti della razionalità contemporanea. Essa si fonda su una modalità di pensiero e di organizzazione sociale che mira a mettere in relazione elementi molteplici senza conflitto, senza gerarchia esplicita, attraverso il principio della connessione funzionale. Tale logica, apparentemente neutra e inclusiva, produce in realtà forme insidiose di desoggettivazione, sottraendo al soggetto la sua possibilità di insistenza, di rottura, di domanda etica radicale. Questa logica attraversa tanto il campo politico quanto quello clinico, sociale e persino educativo, e si manifesta nella governance, nella psicologia adattiva, nella pedagogia prestazionale.


2. Razionalità coordinativa e funzionamento sistemico

Come ha osservato Habermas, la razionalità moderna si è differenziata in due registri: la razionalità strumentale del sistema e la razionalità comunicativa del mondo della vita. Tuttavia, la proposta habermasiana di salvare la sfera comunicativa tramite un'etica del discorso sembra oggi insufficientemente radicale. La logica coordinativa assorbe anche il discorso etico in un regime di gestione, dove il conflitto viene convertito in procedura, e la domanda viene trasformata in problema da risolvere.

In questo senso, si può affermare con Adorno che "non c’è vita vera nella vita falsa" (Minima Moralia, 1951). La logica coordinativa neutralizza la negatività, l’attrito che costituisce la materia della soggettività e dell’etica. Essa si presenta come la forma postmoderna della razionalità funzionalista, in cui tutto si connette, ma nulla resiste.


3. Clinica del soggetto e razionalità coordinativa

Nel campo clinico, tale logica si manifesta nel passaggio dalla psicoanalisi alla psicoterapia evidence-based, dalla domanda all’adattamento, dal sintomo come messaggio al sintomo come disfunzione. La clinica della ragione coordinativa è quella che non vuole sapere del soggetto, ma solo dei suoi comportamenti, dei suoi pattern, dei suoi deficit. Come sottolinea Lacan, la psicoanalisi non è una psicologia dell’Io, ma una pratica del soggetto diviso, strutturato dal linguaggio, irriducibile alla funzione adattiva (Écrits, 1966).

L’inconscio, in questa logica, diventa rumore, il sintomo una distorsione, e la cura una normalizzazione. In tale orizzonte, la clinica si trasforma in governance dell’individuo, in ingegneria della felicità o della resilienza. Come ricorda Byung-Chul Han (La società della stanchezza, 2010), l’individuo contemporaneo si sente libero proprio mentre è completamente inserito in un regime prestazionale che lo rende responsabile del proprio fallimento.


4. Etiche orientali e razionalità funzionale

Il confronto con le etiche orientali può sembrare, a prima vista, offrire un’alternativa alla logica occidentale. Tuttavia, se osservate nella loro ricezione contemporanea, queste etiche – fondate sull’armonia, sull’adattamento all’ordine naturale, sulla dissoluzione dell’ego – si prestano spesso a una riattivazione funzionalista. Come sottolinea Sloterdijk, il buddhismo globale oggi agisce più come tecnica di ottimizzazione dell'umore che come rottura dell’ordine costituito (Devi cambiare la tua vita, 2009).

In molti casi, tali etiche diventano supporti spirituali al neoliberismo, producendo una soggettività flessibile, disponibile, non conflittuale. L’armonia viene così dislocata dalla sfera etico-politica a quella della performance adattiva, e il soggetto si ritrae in una interiorità disattivata, anestetizzata.


5. Politica e desoggettivazione

La logica coordinativa si esprime politicamente nella forma della governance, nella sostituzione della decisione con la mediazione procedurale, del conflitto con il consenso. Sloterdijk ha messo in evidenza come la politica tardo-moderna tenda a trasformarsi in "cura del mondo", perdendo il legame con la passione del politico e con il rischio del dissenso radicale.

Zizek, in questo contesto, denuncia il modo in cui la democrazia liberale sopravvive solo come rituale, svuotata di contenuto sovversivo: "il soggetto politico autentico emerge nel momento in cui l’ordine simbolico vacilla" (Meno di niente, 2012). La logica coordinativa, al contrario, tende a suturare ogni rottura, convertendo l’evento in procedura, la rivolta in riforma, la soggettivazione in gestione.


6. Genealogia della soggettività occidentale

Come ha argomentato Kantzas (La Polis senza Creonte e senza Antigone, 2011–2025), il soggetto occidentale nasce dalla frattura tra legge e desiderio, tra ordine politico e istanza etica. Questa frattura, che la tragedia greca mette in scena attraverso Antigone e Creonte, è l’archetipo del soggetto come scissione. Anche la tradizione giudaico-cristiana, con Abramo, i profeti, e infine il Cristo, pone il soggetto davanti a un Altro che non coincide con l’ordine sociale. La modernità secolarizza questa frattura nella figura del soggetto autonomo, ma diviso: tra ragione e volontà, tra legge morale e felicità.

La logica coordinativa tenta di suturare questa frattura, proponendo un soggetto armonico, prestazionale, pienamente integrato nei dispositivi. Kantzas osserva che la "polis postmoderna" vuole il corpo di Antigone e la ragione di Creonte senza la loro tragedia, producendo così un soggetto impolitico, senza desiderio e senza legge.


7. Conclusione: Critica della ragione coordinativa

La ragione coordinativa, lungi dall’essere una neutralizzazione pacifica del conflitto, si rivela come una strategia per l’eliminazione della soggettività. Essa funziona come una desublimazione repressiva: promette liberazione, ma produce conformismo; promette dialogo, ma riduce il dissenso; promette cura, ma produce normalizzazione.

Contro questa logica, è urgente rilanciare una clinica e una politica del soggetto. Una clinica che non si accontenti di curare, ma che sappia sostenere la verità del sintomo. Una politica che non cerchi il consenso, ma la possibilità di un nuovo inizio. Come afferma Adorno: “L’unica etica che resta è quella che si fa carico dell’impossibilità dell’etica” (Dialettica negativa, 1966).


Bibliografia

  • Adorno, T.W., Minima Moralia, 1951
  • Adorno, T.W., Dialettica negativa, 1966
  • Byung-Chul Han, La società della stanchezza, Nottetempo, 2010
  • Habermas, J., Teoria dell’agire comunicativo, 1981
  • Kantzas, P., La Polis senza Creonte e senza Antigone. Lezioni Fiorentine, UNIFI ScienPo, 2011–2025
  • Kierkegaard, S., Timore e tremore, 1843
  • Lacan, J., Écrits, 1966
  • Sloterdijk, P., Devi cambiare la tua vita, 2009
  • Zizek, S., Meno di niente, 2012


domenica 18 maggio 2025

Il Dio straniero: Dioniso, il pensiero tragico e l’eredità dell’Occidente

Dioniso


1. Pensiero tragico e dialettica apollineo-dionisiaca

Il pensiero tragico, secondo Nietzsche, nasce dalla tensione dinamica tra due princìpi fondamentali della cultura greca: l’apollineo e il dionisiaco. L’apollineo rappresenta la chiarezza, la forma, l’ordine e la misura, mentre il dionisiaco incarna il caos, l’ebbrezza, la fusione con l’altro e la perdita di sé nel flusso della natura. Nietzsche afferma che “la tragedia è l’arte che nasce dalla lotta e dall’unità di questi due spiriti” (Nietzsche, La nascita della tragedia, §2). Questa dialettica consente di rappresentare la realtà umana non come semplice razionalità, ma come uno scontro continuo tra ragione e impulso, forma e disfacimento.


2. Dioniso: il dio straniero e la forza del sovvertimento

Dioniso si presenta come un dio straniero, un elemento esterno che penetra nel cuore della polis greca e ne mette in crisi l’ordine stabilito. Egli è “il dio che unisce e dissolve, che fa esplodere la realtà nelle sue contraddizioni più profonde” (Vernant, 1972). Nel dramma di Euripide, Le Baccanti, Dioniso manifesta questa duplicità: da una parte è un dio di festa e liberazione, dall’altra un agente di follia e distruzione. Penteo, re di Tebe, rappresenta il potere apollineo, che si oppone alla rivelazione dionisiaca. La tragedia culmina nella morte di Penteo, sbranato dalle baccanti in preda al delirio, simbolo dell’irruzione violenta del dionisiaco nella realtà umana.


3. Lettura psicoanalitica lacaniana: il reale dionisiaco e la divisione del soggetto

Dal punto di vista della psicoanalisi lacaniana, Dioniso può essere interpretato come una manifestazione del “reale” — quel registro dell’esperienza che sfugge alla simbolizzazione e al controllo del linguaggio. Lacan sottolinea come il soggetto sia strutturato attorno a un’assenza originaria, una scissione interna tra il desiderio e la legge simbolica che lo limita. La tragedia diventa allora una rappresentazione della lotta interna del soggetto. Antigone, ad esempio, si oppone alla legge del re, incarnando il desiderio che sfida la norma: “La legge non ha il potere di sottomettere ciò che è giusto nel desiderio” (Lacan, Seminario VII, 1959). La tragedia mette in scena questa impossibilità di risolvere il conflitto tra desiderio e legge, tra individuo e società.

Edipo, a sua volta, simboleggia la ricerca disperata di un senso che si rivela impossibile da raggiungere. Lacan commenta che Edipo scopre “la mancanza nel sapere,” la realtà che il soggetto è sempre segnato da un vuoto che non potrà mai colmare completamente. La tragedia esprime così la condizione umana di soggettività divisa, esposta al dolore e alla contraddizione.


4. Il dionisiaco come eccesso e il ruolo educativo della tragedia

Il dionisiaco rappresenta l’eccesso, la forza che rompe i confini della misura e mette in crisi ogni ordine stabilito. La tragedia, come scrive Jean-Pierre Vernant, “insegna all’uomo a convivere con il caos e la perdita, mostrando la fragilità della condizione umana” (Vernant, 1972). L’esperienza tragica non è solo dolore, ma anche un momento di catarsi e consapevolezza, in cui l’uomo accetta la propria finitezza e la complessità dell’esistenza.

La tragedia greca esercita così un ruolo fondamentale nel permettere alla cultura occidentale di confrontarsi con l’ignoto e il perturbante. Dioniso incarna questa forza destabilizzante, ma anche rigenerativa: la sua presenza richiama l’uomo a non ridursi a mera razionalità o controllo, ma a riconoscere il proprio lato oscuro e irrazionale.


5. L’eredità del pensiero tragico nella cultura occidentale

L’influenza di Dioniso e del pensiero tragico nella cultura occidentale si manifesta in molteplici ambiti, dalla filosofia all’arte, dalla letteratura alla psicoanalisi. Nietzsche stesso sottolinea che la tragedia è “la suprema arte della vita, che afferma la vita nonostante il dolore e la sofferenza” (Nietzsche, La nascita della tragedia, §24).

Nel mondo moderno, dominato da razionalismo e controllo, la forza dionisiaca rimane un richiamo fondamentale alla complessità dell’umano. Lacan afferma che “la psicoanalisi è il tentativo di non cancellare il reale dionisiaco, ma di farlo emergere per riconoscere la verità del soggetto” (L’etica della psicoanalisi). La cultura occidentale, quindi, continua a portare con sé l’eredità del tragico, ossia la capacità di confrontarsi con la divisione, l’ambiguità e l’impossibilità di una totalità definitiva.


6. Conclusioni: il valore eterno del tragico e del dio straniero

Dioniso e il pensiero tragico rappresentano un’apertura fondamentale al mistero e all’inafferrabile dell’esperienza umana. Essi insegnano a vivere con il limite, con il conflitto e con la perdita senza negare la possibilità della bellezza e della trasformazione. In un’epoca in cui la cultura tende spesso a semplificare e controllare, il richiamo dionisiaco resta un monito a non dimenticare la nostra natura complessa, fatta di luce e ombra, ordine e caos.


Bibliografia

  • Nietzsche, F. (1872). La nascita della tragedia.
  • Lacan, J. (1959-1960). Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi.
  • Kantzas P. (2011-2025), La Polis senza Creonte e senza Antigone. UNIFI ScienPo, Firenze.
  • Euripide. Le Baccanti.
  • Sofocle. Antigone, Edipo Re.
  • Vernant, J.-P. (1972). Mito e tragedia nell’antica Grecia. Einaudi.
  • Detienne, M. (1997). Dioniso e la violenza. Laterza.


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